Simona Castellani
Secondo l’Economia del Bene Comune il principale errore del sistema economico attuale è quello di confondere gli strumenti – denaro e capitale – con gli obiettivi – il bene comune.
Se per crescere e sviluppare dobbiamo inquinare, non è sviluppo, non è crescita. È imbarbarimento. Se per arricchirci dobbiamo creare più disuguaglianza, non è arricchimento, è disonestà”
[padre Fortunato, Manifesto di Assisi, gennaio 2020]
L’Economia del Bene Comune (EBC) è un movimento internazionale che ha l’obiettivo di facilitare la conversione ad un sistema socio-economico migliore e trasformativo facendo in modo che bene comune e mercati tornino ad essere alleati nella convinzione che il mercato, come ci insegna Antonio Genovesi, padre dell’economia civile (1776), non si regga a lungo sul solo principio del profitto e della concorrenza. Il movimento dell’EBC, nato in Austria nel 2010 grazie a Christian Felber e ad un gruppo di imprenditori pionieri, propone un modello di transizione socio-economica che ci apre ad un nuovo, anzi riscoperto, orizzonte di senso in cui l’economia mette al centro il benessere delle persone e del pianeta prefiggendosi di perseguire l’obiettivo supremo di tutti gli stati democratici e il fine ultimo dell’attività economica: il bene comune.
Il senso originario dell’economia
Il movimento nasce quindi con l’idea di recuperare il senso originario dell’economia intesa come strumento al servizio del bene comune e non come fine ultimo di ogni cosa. Questa intuizione, che oggi ci appare rivoluzionaria, ha come primo riferimento culturale la tradizione aristotelica, di cui il movimento è totalmente imbevuto:
l’economia è virtuosa e civile se è intesa come il mezzo per vivere bene e non come la ricerca della ricchezza illimitata come fine in sé.
Tuttavia, il concetto di economia al servizio del bene comune trova riscontro in un’ampia pluralità di contesti storici passati ma successivi ad Aristotele, come ad esempio quello della scuola francescana e, successivamente, quello della regola benedettina, secondo i quali si deve lavorare sulla costruzione di una comunanza di intenti alla quale nessun individuo deve restare estraneo. Solo così i governanti possono sperare di far nascere e crescere il sentimento del comune interesse inteso come l’opportunità di partecipare, attraverso il raggiungimento di determinati obiettivi, del vantaggio per il bene comune. (Oreste Bazzichi, Economia e scuola francescana).
Avanzando cronologicamente nel tempo, incontriamo l’economia civile, espressione che compare per la prima volta nel lessico politico-economico nel 1753, anno in cui l’Università di Napoli istituisce la prima cattedra al mondo di economia, affidandone la titolarità ad Antonio Genovesi, la cui opera fondamentale del 1765 reca per titolo “Lezioni di economia civile”. L’economia civile si fonda sulle virtù civiche e sulla natura socievole dell’essere umano, il quale è spinto ad incontrarsi, anche nel mercato, con l’altro. Rimanendo invece più vicini ai nostri tempi, ritroviamo il concetto di economia al servizio del bene comune anche nello stesso Adriano Olivetti che praticava l’economia sociale e nei RES presenti nelle varie regioni d’Italia (Rete Italiana di Economia Solidale) che promuovono il concetto di economia solidale.
L’idea di economia al servizio del bene comune la troviamo inoltre come concetto centrale a tutte le Costituzioni di diversi Paesi, inclusa la nostra.
Costituzione italiana, articolo 41:
L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.
Tornando al movimento dell’economia del bene comune, secondo l’economista austriaco e scrittore Christian Felber, uno dei protagonisti e precursori dell’EBC, il principale errore del sistema economico attuale è quello di confondere gli strumenti – denaro e capitale – con gli obiettivi. Un errore che rischia di ostacolare il passaggio tra la dimensione individuale e quella sociale facendo perdere di vista il senso della comunanza e quindi del bene comune.
Il modello socio-economico proposto dall’EBC si basa sull’applicazione di cinque valori – dignità umana, eco-sostenibilità, giustizia sociale, solidarietà, trasparenza e partecipazione democratica – e il suo obiettivo è quello di valutare il modo in cui questi cinque valori di fondo vengono agiti e vissuti da imprese, istituzioni e persone, nella loro relazione quotidiana con i diversi gruppi di portatori di interesse, e di consentire, così, una valutazione della qualità sociale, ambientale ed etica delle diverse attività e organizzazioni. Perché il bene comune è qualcosa che avviene e si realizza mediante le azioni, i comportamenti e le scelte e l’assetto valoriale appena descritto costituisce un orizzonte di senso che ci aiuta a comprendere se stiamo facendo bene.
Crematistica è l’accumulo illimitato. Oikonomia è la giusta misura. Tu, quale economia vuoi?
Per comprendere appieno la visione ed il senso su cui poggia l’EBC è utile tornare alle origini della storia dell’economia e quindi ad Aristotele, l’erede della cultura greca del concetto della giusta misura (o del giusto limite, della finitezza dei bisogni). Un concetto che si declina in due macro-sistemi di economia descritti dal filosofo greco come diametralmente opposti: crematistica ed oikonomia.
Crematistica è l’arte di guadagnare illimitatamente e di accumulare beni e ricchezza che Aristotele condanna e stigmatizza come via perversa del perseguimento dell’accumulo illimitato a tutti i costi e quindi come sistema contro natura. Oikonomia è l’arte dell’oikos (dimensione famigliare e della casa) volta alla riproduzione della comunità prima famigliare e poi della società civile che il filosofo valorizza perché basata su bisogni finiti e limitati che recuperano l’etica della giusta misura e quindi come sistema secondo natura.
Questo tema della giusta misura trova una delle sue espressioni più chiare e significative se applicato al contesto economico e politico di oggi: occorre capire se crematistica ed oikonomia coincidono oppure no. È interessante osservare come nel nostro modello di sviluppo economico di fatto si tenda a non distinguere le due dimensioni, anzi, si nota come la crematistica tenda ad invadere il terreno dell’oikonomia in virtù della nostra tendenza ad accumulare in maniera spropositata beni e ricchezze a sostegno di un ciclo capitalistico e produttivo che troppo spesso non tiene in considerazione i costi a carico di ambiente e società.
Qualsiasi modello di sviluppo che in ambito economico persegua l’illimitato è un modello non sostenibile – e quindi irresponsabile e miope – in virtù del fatto che la terra è un sistema chiuso e le sue risorse sono limitate
come viene riportato nei tre famosi reports che il Club di Roma ha commissionato al MIT – The Limits to Growth del 1972, Beyond the Limits del 1992 e Limits to Growth 30 years later del 2004 – e che dimostrano attraverso modelli matematici l’impossibilità di una crescita economica infinita in un pianeta dalle risorse finite. Consumo e capitalismo di per sé non sono contro natura ma lo possono diventare quando si piegano alla perversa logica dell’illimitato perseguimento del profitto nella convinzione che sia questo il fine ultimo e che a questo fine debba convergere ogni cosa. Il movimento dell’EBC lavora affinché il sistema economico si trasformi in un sistema più evoluto che possa essere utile a tutti in quanto generatore di benessere collettivo.
Sviluppare un sistema economico che abbia fatto pace con il concetto della giusta misura e con la dimensione dell’equità, quindi, non significa affatto negare la dimensione del profitto che, anzi, “lo dice l’etimologia della parola stessa – pro-ficere, per fare – può e deve essere un elemento positivo per uno sviluppo sostenibile, per un’economia che sia al tempo stesso profitto e cura. Oggi più che mai si deve pensare alle imprese come organizzazioni sociali che necessariamente hanno implicazioni economiche: questo ribaltamento di prospettiva è uno strumento della trasformazione culturale imprenditoriale“. (conversazioni con Giorgio di Tullio)
Cos’è la legittimazione d’impresa?
Il concetto di oikonomia declinato ad esempio nel mondo delle imprese, ci induce a riprendere coscienza del fatto che la loro vocazione naturale non sia quella della massimizzazione del profitto ma quella della massimizzazione del bene comune e della creazione di valore positivo per tutti: “È superata l’era delle aziende profit unicamente votate al massimo profitto e poco attente agli effetti esterni sociali ed ambientali delle proprie scelte” (Leonardo Becchetti, 2019). Contribuire al perseguimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile promossi dall’Agenda 2030, sviluppare idee innovative per contribuire a risolvere le sfide glocali, adottare sistemi di economia circolare, sono solo alcuni esempi di come un’organizzazione possa creare valore per la collettività attraverso il suo modo responsabile di fare impresa.
Anche gli Stati Uniti, prima ancora che l’economista americano Milton Friedman, fondatore del pensiero monetarista, dichiarasse nel 1970 che “l’unica responsabilità sociale di un’azienda è fare profitti”, avevano promosso l’idea della legittimazione d’impresa in virtù del suo ruolo di attore socialmente responsabile:
“Le attività di impresa sono permesse e incoraggiate dalla legge perché sono un servizio alla società piuttosto che fonte di profitto per i suoi proprietari” (Harvard Law Review, 1932). “Il profitto e il desiderio di potere non inducono a fare grandi sforzi per accrescere la capacità o espandere la cultura degli altri uomini. Se il sistema economico dipendesse soltanto dal movente del profitto, esso finirebbe col suicidarsi” (Adolf A. Berle, La Repubblica economica americana,1966).
Dopo il famoso discorso di Friedman che nel 1970 aveva legittimato una gestione scellerata del modo di fare impresa, ci vollero altri 50 anni prima che gli Stati Uniti si decidessero a defenestrarlo definitivamente grazie alla svolta della Business Roundtable che con la sua dichiarazione dell’agosto 2019 ha ridefinito l’obiettivo istituzionale delle imprese decretando così l’inizio di un nuovo capitalismo pronto a remunerare non solo il denaro ma anche il sistema che vive intorno alle imprese: i clienti, i fornitori, i collaboratori, la comunità.
Si tratta di una transizione verso un nuovo e necessario modo di fare impresa, capace di coniugare la creazione di valore economico e la sostenibilità, l’unico che abbia senso perseguire e che ci consenta di vincere la sfida sociale ed ambientale (Leonardo Becchetti, 2019).
I tempi “fisiologici” per un cambiamento culturale sono lunghi ma credo che, per avere un’economia che funzioni in una società che funziona e che non sia imbarbarimento, serva quanto meno iniziare a mettere in discussione il nostro modello di sviluppo attuale.
Un modello di sviluppo che, come messo in evidenza dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, ha dimostrato tutta la sua insostenibilità ulteriormente aggravata da squilibri globali che non possiamo più ignorare come l’aumento della povertà e delle diseguaglianze sociali, la precarietà lavorativa, l’esclusione sociale, l’emergenza climatica. Metterlo in discussione è molto meno utopico che continuare a credere che esso sia, invece, la soluzione a tutti i nostri problemi.
Il vero cambiamento culturale? Capire che sono fiducia e cooperazione a creare i mercati. Non viceversa.
Per mettere in discussione un sistema istituzionalizzato che ha dimostrato di essere fallimentare bisogna cercare di cambiare prospettiva, iniziare a farci delle domande nuove, interpellare la nostra immaginazione e risvegliare la domanda di senso che è dentro ognuno di noi: “Dobbiamo smettere di dare per scontato il mondo in cui siamo cresciuti e immaginarcene uno completamente diverso, e migliore, senza paura. Servono le tre dimensioni del cambiamento: tutte necessarie e nessuna sufficiente: la dimensione tecnologica, la dimensione della decisione politica e la dimensione del cambiamento culturale/personale” (Gianluca Ruggeri, 2019). Ed è sulla dimensione del cambiamento culturale/personale che l’EBC vuole intervenire.
Serve una nuova cultura d’impresa per superare l’idea che l’economia debba essere fine a sé stessa e irrimediabilmente piegata alla legge del massimo profitto e per concepirla, invece, come strumento al servizio del bene comune. I mercati non stanno in piedi se non sono sorretti da altri fattori non economici come la fiducia e il capitale relazionale e umano.
(Leggi anche: “La conversione ad una nuova economia potrà affermarsi soltanto se apparirà socialmente desiderabile”) Non esiste, come invece credeva Adam Smith, un processo automatico che permetta ai mercati di portare magicamente con sé fiducia e virtù civili quali ad esempio la giustizia o la solidarietà sociale. Per l’EBC, infatti, vale il processo opposto: è la “fede pubblica” che permette i mercati. E questo è probabilmente il più grande insegnamento che il movimento ha colto dal nostro economista e filosofo Antonio Genovesi (contemporaneo di Adam Smith). La sfida sta nello spostare il nostro punto di vista: non sono i mercati che creano la cooperazione ma, al contrario, è la cooperazione che crea i mercati. Non è la crescita che fa la ricchezza, ma la ricchezza che fa la crescita (Eloi Lavrent, 2019).
Cambiare paradigma non è certo cosa da poco perché l’essere umano è per sua natura refrattario al cambiamento perché comporta sacrifici e difficoltà di vario genere. Ma se comprendiamo che alla fine del processo di conversione ad un’altra economia avremo salvaguardato il nostro sistema di vita sostenibile, solidale e orientato alla coesione sociale, non avremo compiuto nessun sacrificio.
Per affrontare con più serenità il cambiamento serve anche credere che le regole si possono a volte determinare e che non si subiscono soltanto: “Possiamo creare un’economia migliore se capiamo che i mercati sono il prodotto delle decisioni che prendiamo” (Mariana Mazzucato, 2018).
Facciamo quindi in modo che siano decisioni sensate ad influenzare i mercati, decisioni che siano rispettose dell’aria, dell’acqua, della terra e delle persone. Conviene a tutti! In ossequio al senso delle cose chiediamoci, ad esempio, quale sia il punto di unione più forte tra i produttori di alimenti biologici e i loro consumatori. Entrambi vogliono poter contare su una terra che non sia avvelenata. E qual è il punto di unione più forte tra un’impresa e i suoi potenziali clienti? O tra un’istituzione pubblica e i suoi cittadini? Entrambi vogliono poter contare su un modello economico e sociale di riferimento che non sia dissennato né disumano perché sappiamo che “Un’azienda che funziona in una società che non funziona non serve a niente” (Adriano Olivetti, 1901 – 1960). Lo stesso si potrebbe dire per una scuola o qualsiasi tipo di istituzione.
Solo le imprese che si sono trasformate in una comunità potranno essere competitive sul mercato di oggi e di domani
Chiediamoci se abbia senso continuare a dare per scontato che la concorrenza sul mercato sia sempre e irrimediabilmente alla base della “crescita” o se invece non ci sia la cooperazione alla radice dell’economia. Chiediamoci se abbia senso continuare a misurare il benessere della nostra società o il successo della nostra impresa o la bontà di qualsiasi tipo di politica affidandoci ad indicatori ormai obsoleti come la crescita e il PIL. Obsoleti perché non prendono minimamente in considerazione le dimensioni dell’ambiente e della società e perché non misurano il benessere delle persone ma semplicemente il livello di ricchezza di una nazione in base al valore aggregato dei beni e dei servizi prodotti, inclusi quelli che generano un male anziché un bene sociale.
Il Pil non ha di per sé valore intrinseco ma ne assume solo se associato ad altri indicatori positivi come l’occupazione, l’inclusione sociale, la distribuzione equa delle risorse, la formazione, la solidarietà, il rispetto dell’ambiente, la democrazia o la soddisfazione di tutti i bisogni basilari delle persone che compongono una società (Christian Felber, 2017).
E allo stesso modo il valore economico generato da un’impresa non ha di per sé molto senso se in suo nome vengono sacrificati e dispersi tutti gli altri valori – umano, sociale, etico, ambientale – perché così si rischia di rimanere senza nemmeno il valore economico. Dobbiamo quindi produrre profitto rispettando la persona, l’ambiente e la comunità in cui siamo inseriti.
Per rimanere competitive sul mercato di oggi e di domani le aziende devono diventare comunità, devono cioè adottare un modello di business capace di risolvere la contraddizione di valori tra l’economia e la società promuovendo nella propria attività imprenditoriale gli stessi comportamenti e valori che portano al successo anche nei rapporti umani: fiducia, apprezzamento, cooperazione, dignità umana, solidarietà e condivisione. Per fare questo salto culturale evolutivo l’azienda deve iniziare a percepirsi come uno dei tanti elementi di un ecosistema complesso e capire, così, che la sua sopravvivenza è legata al suo modo di relazionarsi con le altre parti che lo compongono. Proprio come fanno le piante: da loro dovremmo imparare il senso di comunità.
Per immaginarci un’economia migliore ed iniziare a costruirla, bisogna cambiare gli indicatori economici di riferimento e snidarli dalla loro base.
Ed è su questo fronte che il movimento internazionale dell’EBC è impegnato da anni nel suo sforzo di creare e aggiornare nuovi indicatori di benessere e di sviluppo sociale – come il Bilancio del Bene Comune – utili a rilevare il grado di raggiungimento dei valori fondamentali nella società.Solo così possiamo invertire rotta e rendere i comportamenti responsabili, etici e solidali più facili da adottare e più facili da premiare e, quindi, i più legittimati a dettare le regole del mercato.
Maggiori sono i risultati etici e le prestazioni di sostenibilità evidenziati da un’impresa, maggiori saranno i benefici che questa otterrà in termini di appalti pubblici, accesso ai mercati, agevolazioni fiscali, accesso al credito. In questo modo i prodotti e i servizi sostenibili risulteranno più competitivi di quelli meno sostenibili e solo le imprese responsabili potranno sopravvivere sul mercato.
Utopia irrealizzabile? Ho descritto, in effetti, uno scenario inedito e controcorrente rispetto al sistema che viviamo oggi dove invece che premiare le virtù spesso tendiamo a punirle o ad ostacolarle: “Gli uomini hanno fatto milioni di leggi per punire i delitti, e non ne hanno stabilita una per premiare le virtù” (Giacinto Dragonetti, allievo di Antonio Genovesi, 1776).
“La felicità o è pubblica o non è, poiché la ricchezza creata contro gli altri produce malessere per tutti”
Oggi promulghiamo leggi che sono ostinatamente ripiegate sulla mera funzione del potere coercitivo dello Stato e che sono spesso contrarie o inadeguate ad esprimere le “norme sociali” e le “norme morali” che, assieme a quelle “legali” costituiscono quell’integrità normativa necessaria a garantire la loro stessa credibilità e sostenibilità. Finché il legislatore rimane legato al concetto di “homo economicus”, secondo il quale le persone sono soggetti tendenzialmente antisociali e autointeressati, confezionerà norme che caricano sulle spalle di tutti i cittadini pesanti sanzioni o punizioni allo scopo di assicurarne la esecutorietà. (Stefano Zamagni, 2012). Ma questo approccio non fa che minacciare la stabilità dell’ordine sociale stesso perché si è ignorata la natura pro-sociale e solidaristica dell’essere umano e il suo enorme bisogno di nutrirsi di relazioni e di fiducia.
Il modello socio-economico dell’EBC è la risposta ad una società che pretende un’economia che non sia muta né cieca di fronte alla costruzione di un apparato legislativo inadeguato ad esprimere quei valori che sorreggono l’architettura di una società responsabile, coesa e che vuole costruire relazioni di reciprocità e di fiducia.
“Una società che offre opportunità per esercitare il comportamento virtuoso è una società che rende possibile la proliferazione di soggetti e di comportamenti virtuosi” (Stefano Zamagni, 2012).
Per riprendere il pensiero di Antonio Genovesi, una delle più belle espressioni della tradizione culturale italiana a cui l’EBC si ispira, riporto una sua famosa frase per chiudere l’articolo con un messaggio che esprime con chiarezza l’orizzonte di senso dell’Economia del Bene Comune: “La felicità o è pubblica o non è, poiché la ricchezza creata contro gli altri produce malessere per tutti”. (1776)
BIBLIOGRAFIA
Leonardo Becchetti, “Fai la tua parte, racconta il bene”, Buone Notizie del Corriere della Sera, 2019
Eloi Lavrent, “L’economia? (Non è) questione di PIL”, su Buone Notizie del Corriere della Sera, 2019
Riccardo Taverna, Direttore Economia Civile & Sostenibilità di Aida Partners, 2019
Gianluca Ruggeri, ingegnere ambientale, Dipartimento di Scienze Teoriche ed Applicate (DiSTA) all’Università dell’Insubria, 2019
Mariana Mazzucato, “Il valore di tutto”, 2018
Stefano Zamagni, convegno “Oltre la responsabilità sociale d’impresa”, Università di Padova, 2018
Christian Felber, “Questo sistema economica genera un’infinità di danni collaterali”, intervista a cura di L’Italia Che Cambia, 2017
Antonio Genovesi, “Lezioni di economia civile”, 2013
Luigino Bruni, “ALLE ORIGINI DELLA CRISI. Genovesi. La rivincita dell’abate contro Adam Smith”, Avvenire, 2013
Stefano Zamagni, “Trattato delle virtù e dei premi”, Introduzione, 2012
Giacinto Dragonetti, “Trattato delle virtù e dei premi”, 1776
Giorgio di Tullio, Conversazioni, 2020
Oreste Bazzichi, “Economia e scuola francescana”, 2013
LINK DI APPROFONDIMENTO
https://www.economia-del-bene-comune.it/la-conversione-ad-una-nuova-economia-potra-affermarsi-soltanto-se-apparira-socialmente-desiderabile/ (Blog sul sito ufficiale dell’Economia del Bene Comune)
https://www.italiachecambia.org/2017/01/sistema-economico-danni-collaterali/ (intervista di Italia Che Cambia a Christian Felber)
https://www.avvenire.it/agora/pagine/genovesi (articolo di Luigino Bruni sull’economia civile)
https://www.youtube.com/watch?v=chkWe6yLRaI (Crematistica ed Economia in Aristotele, Diego Fusaro)
ULTERIORI INFORMAZIONI SULL’ECONOMIA DEL BENE COMUNE
Grazie al suo approccio sistemico l’Economia del Bene Comune ha ottenuto un risultato politico estremamente importante: nel 2015 il modello economico proposto dal movimento è stato riconosciuto dal CESE (Comitato Economico Sociale Europeo) come l’unico modello economico – etico, sostenibile e orientato alla coesione sociale – in grado di far fronte alla scarsa resilienza del sistema economico e sociale europeo (https://www.eesc.europa.eu/our-work/opinions-information-reports/opinions/economy-common-good).
Photo credits: Johannes Plenio, “Sunset on Rain-forest”, Pexels