Simona Castellani
Una moneta chiamata fiducia, il nuovo libro di Daniel Tarozzi è in libreria dal 26 settembre 2019. Questo articolo ne vuole evidenziare alcuni passaggi salienti e contribuire a diffondere un messaggio di speranza: una nuova economia è possibile, funziona ed è socialmente desiderabile.
Daniel Tarozzi, l’autore del libro “Una moneta chiamata fiducia”, è decisamente un portatore di speranza come lo era Alexander Langer che ha ispirato il titolo di questo articolo. L’ecologista visionario (1946-1995) che fu tra i fondatori del partito dei Verdi italiani è noto soprattutto per la sua grande intuizione nell’aver intravisto nella questione ambientale un grande tema trasversale, intuizione espressa attraverso questo principio: “La conversione ecologica potrà affermarsi soltanto se apparirà socialmente desiderabile”.
Con le numerose testimonianze riportate nel suo libro Tarozzi ci dimostra che sono in tanti ormai ad invocare una nuova economia più sostenibile, che le persone si stanno accorgendo che forse il nostro modello economico attuale è perdente, o comunque non è così infallibile come vogliono farci credere e che altre strade sono percorribili. Infatti un altro tipo di economia non solo è possibile ma esiste, è concreta e funziona.
Un’economia alternativa alla tirannia del capitale e della finanza e a quella dello spreco e del “consumismo che brucia troppe risorse, ne trasforma troppo poche e ne crea ancora meno” (George Monbiot). Un’economia che si basa sulla collaborazione, sulla solidarietà e sulla responsabilità e che diventa quindi un modello “affascinante e auspicabile perché contribuisce a creare una società funzionante nella quale cioè sono stati attivati processi di solidarietà tre le persone” (D. Tarozzi). Insomma, un’economia che si basa sulla fiducia.
Il messaggio di fondo del libro di Tarozzi non poteva che essere un messaggio di speranza: che le regole si determinano, non si subiscono soltanto, e che le persone non sono mobilitate solo dal vantaggio economico ma hanno un enorme bisogno di nutrirsi di relazioni e di fiducia. “Secondo alcune scoperte scientifiche, infatti, le relazioni di successo sono ciò che rende più felici le persone e dà loro maggiore motivazione” (L’Economia del Bene Comune, Christian Felber).
Buone relazioni e fiducia sono esattamente gli ingredienti alla base del sistema economico che governa le monete complementari su cui l’autore si concentra nel libro, monete che sono funzionali alla società perché profondamente radicate nell’economia reale in quanto appunto monete sociali, non speculative come sono, invece, i bitcoins.
Anche Stefano Zamagni, noto economista ed esponente del movimento dell’economia civile, parlando di finanza di impatto ci ricorda l’importanza di costruire un legame solido con il contesto in cui si opera:
“Finché la finanza di impatto avrà i piedi per terra, finché rimarrà vicina alle comunità e ai bisogni, non avrà nulla da temere” (convegno Unlocking Impact Capital, marzo 2018).
Tutto ciò che fa i conti con la vita reale delle persone ha senso. Anche la prassi dello smart working non è altro che la risposta delle aziende ad un cambiamento radicale della società e consiste nel proporre ai propri collaboratori un modello spazio-temporale di organizzazione del lavoro più vicino alla loro vita reale. Un nuovo modello organizzativo che consente ai lavoratori, attraverso una maggiore flessibilità di orario e di autonomia nella scelta degli spazi e della modalità di lavoro, una migliore gestione dell’equilibrio vita-lavoro. Ma c’è una grande resistenza che impedisce a queste iniziative di decollare in azienda: il timore di perdere il controllo sui lavoratori. In sostanza se non c’è la fiducia, lo smart working non può funzionare.
La fiducia muove le persone, legittima l’operato delle aziende, crea una prospettiva di sicurezza. Non esistono soltanto homines economici ossia “consumatori/risparmiatori volti unicamente a massimizzare il loro benessere individuale senza empatia (ndr) per gli altri né dovere morale” (Wikieconomia, Leonardo Becchetti). Il mondo è pieno di persone che, alla base dei loro investimenti e dei loro comportamenti e dei loro progetti, pongono altre dinamiche e altre logiche apparentemente lontane dalla finanza o dall’interesse economico immediato ma che in realtà sono esattamente quelle di cui abbiamo bisogno. Basti pensare alle esperienze finanziarie come quelle delle MAG (mutua autogestione), dei GAT (Gruppo acquisto terreni) e di Banca Etica ma anche ai modelli di business delle Società Benefit e B-Corp e delle organizzazioni che applicano i principi dell’Economia del Bene Comune.
“Esperienze che dimostrano quanto, talvolta, la fiducia possa premiare più di ogni garanzia economica a fronte di un prestito o di un investimento ma soprattutto che dimostrano la volontà delle persone che i loro soldi siano usati per qualcosa di sensato” (D. Tarozzi) e per l’acquisto di prodotti e servizi di aziende socialmente responsabili. In sostanza la domanda che siamo chiamati a porci è semplice: che cosa viene fatto con i nostri soldi? Che tipo di economia stiamo incentivando con i nostri soldi?
Ed è proprio la ricerca di SENSO che stimola le persone e anche le organizzazioni a partecipare attivamente alla creazione di qualcosa che possa essere utile alla società. Il mondo delle imprese si sta mobilitando, attraverso percorsi di sostenibilità, per “coprodurre un mondo migliore influendo da subito sullo sviluppo di un altro tipo di economia” (D. Tarozzi).
Ed è esattamente questo lo scopo delle imprese del bene comune: ricondurre l’economia alla sua concezione originaria – oikonomia – in base alla quale il legittimo profitto delle imprese è vincolato a un impatto positivo su aspetti quali ambiente, società, democrazia, collaborazione e dignità umana. Per le imprese del bene comune il profitto non è più lo scopo unico e principale dell’attività imprenditoriale, ma diventa un mezzo per lo scopo vero: portare il massimo contributo al bene comune, un modello che spinge ai massimi livelli il processo di responsabilizzazione delle imprese e quindi di costruzione di fiducia.
Certo, non viene automatico oggigiorno pensare ad un nesso logico, come dice Nicoletta Napoleoni nella prefazione al libro, che intrecci tra di loro amore per il prossimo, solidarietà per gli altri e fare impresa, eppure esempi di questo modello di “economia della fiducia” applicata al mondo del business sono numerosi e sempre più diffusi. Sul sito di Italia Che Cambia esiste una sezione dedicata alle organizzazioni (non solo imprese) che hanno adottato il Bilancio del Bene Comune come strumento di autoanalisi e di strategia aziendale per calcolare il valore etico, ambientale e umano del loro operato e trasformarlo in prassi sistemica di sostenibilità. Si tratta di aziende che, col loro modello di business, intendono risolvere la contraddizione di valori tra l’economia e la società, premiando e promuovendo nell’economia gli stessi comportamenti e valori che portano al successo anche nei rapporti umani: fiducia, apprezzamento, cooperazione, dignità umana, solidarietà e condivisione. (L’Economia del Bene Comune, Christian Felber).
È così che avviene il miracolo della legittimazione etica del fare impresa e del consenso ad operare. “Nessuno, tanto meno nel contesto odierno, può partire dal presupposto di godere in modo incondizionato della fiducia dei propri interlocutori. L’impresa infatti è posta di fronte alla sfida di conquistare giorno per giorno i propri pubblici: non solo con le parole, ma soprattutto con azioni” e comportamenti che diano sostanza al proprio impegno di attore socialmente responsabile e quindi capace di contribuire al bene comune (Gianluca Comin nel suo articolo sul manuale di Comunicazione finanziaria e Investor relations scritto da Alexander Laskin).
Sono davvero semplici e concreti i comportamenti che possiamo adottare in azienda per far conciliare i valori dell’economia con i valori della società facendo della trasparenza, del benessere delle persone e della tutela dell’ambiente il nostro modello di business. Alcune di queste aziende che puntano ad un altro modo di fare impresa le ho conosciute di persona:
• pagare con puntualità i fornitori, specialmente quelli piccoli (Sabaf)
• creare un ambiente di lavoro confortevole anche negli spazi: ergonomico, luminoso, arioso, pulito (Pegaso integratori alimentari)
• puntare a vendere prodotti che non siano solo belli, economici e funzionali ma soprattutto sostenibili (Greenrail, Orange Fiber)
• coinvolgere attivamente i propri collaboratori nella selezione del personale (Antico Molino Rosso)
• impostare la propria attività produttiva su processi trasparenti e a buon impatto (economia circolare): The Circle
E tanti altri comportamenti che, vi assicuro, sono già una prassi per molte aziende italiane. Basta riconoscerli – facendo affidamento sul fatto che le imprese li comunichino e li valorizzino – e ricondurli al paradigma economico che ha più senso in assoluto e che consiste nel creare profitto senza danneggiare né ambiente né società, anzi, costruendo nuovo valore condiviso.
Togliamoci quindi dalla testa l’idea che la performance economica non sia compatibile con il progresso sociale o che gli obiettivi di sviluppo, come ad esempio l’eliminazione della fame nel mondo, non siano compatibili con la salvaguardia dell’ambiente, perché è vero esattamente il contrario. Se ci alleniamo a ragionare in termini di giustizia e di bene comune, di economie del territorio e di cambiamenti sociali, ci accorgiamo che possiamo cambiare questo paradigma secondo il quale progresso economico e progresso sociale non sono conciliabili.
Nel loro libro “Effetto serra effetto guerra. Clima, conflitti, migrazioni” Antonello Pasini e Grammenos Mastrojeni ci dimostrano che quanto più noi ci occupiamo di tutelare l’ambiente tanto più risolviamo il problema della fame nel mondo, quanto più gestiamo in maniera corretta e giusta il problema della fame, tanto più proteggiamo l’ambiente: attraverso la sovranità alimentare locale, la distribuzione equa delle risorse, il recupero delle eccellenze locali.
Serve un allenamento costante alla responsabilità e quindi alla generatività, concetto quest’ultimo di cui oggi si sente parlare moltissimo: leadership generativa, welfare generativo, progetti generativi, ecc. Essere generativi significa avere uno sguardo che va oltre la nostra esistenza, che si preoccupa di quello che sarà dopo di noi, significa piantare semi e coltivare alberi sapendo che ad un certo punto vivranno senza di noi. Gli imprenditori generativi sono quelli che creano qualcosa con l’intenzione di renderlo più forte di sé stessi e indipendente da sé stessi (Riccarda Zezza, autrice di Maam), sono quei capitani d’azienda che costruiscono un senso d’impresa intorno al miglioramento della società, non al mantenimento dello status quo dell’azienda stessa, e quindi alla sua evoluzione (dell’azienda e della società).
Ed è proprio l’approccio generativo, quello della visione a lungo termine, che ci salverà perché ha senso: la storia dell’uomo non è forse una storia di ricerca e costruzione di senso nella vita dei singoli e delle collettività? (Alexander Langer, La Nuova Ecologia, 1.5.1995). E se arrivassimo ad un punto in cui la nostra società pretendesse che le aziende possano distribuire utili solo dopo aver dimostrato di essere generative? Non sarebbe fantastico!?
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